19 ottobre 2010

Meglio restare a letto

Vi capitano mai quei giorni che...

...ti svegli controvoglia e non vuoi alzarti, per cui mandi avanti la sveglia di dieci minuti, ogni dieci minuti, fino a quando poi, dopo circa quaranta minuti che armeggi con quella, decidi che è arrivato il momento di alzarti e cominciare la giornata. Ti alzi, ti accorgi che piove e tira un vento che manco la Bora a Trieste. Vai in bagno e ti lavi la faccia con l'acqua fredda perché sei talmente tanto rincoglionito che se non ti lavi con l'acqua a quattro gradi non ti svegli. Vai in cucina e devi fare il caffè, ma è finito, allora vai a cercare in dispensa, lo trovi e lo depositi nel barattolo della cucina, non prima di aver riempito la caffettiera fino all'inverosimile perché se non prendi un caffè fortissimo la mattina non ti svegli. Mentre aspetti il caffè apparecchi la tavola con cereali, quelli ricchi di fibre che fanno tanto bene all'intestino e che, in genere, ti fanno arrivare tardi agli appuntamenti perché, quando meno te lo aspetti ti fanno venire le coliche. Riempi la tazza a metà di caffè e a metà di latte perché, oh, se non bevo il mio caffèllatte la mattina non mi sveglio! Finisci la colazione ritorni in bagno troppo convinto che non ti farai la doccia perché fa troppo freddo per spogliarti ma la puzza d'ascella vince il freddo e ti infili sotto l'acqua bollente. Entri in camera e non sai che cavolo metterti perché piove ma non fa poi tanto freddo, per cui se ti vesti troppo pesante rischi di sudare e se ti vesti troppo leggero rischi di prendere un raffreddore, di quelli che fa arricchire la Tempo, della serie che a Natale ti mandano il pacco regalo per tutti i fazzolettini consumati in autunno. Alla fine metti sempre la stessa maglietta, un po' perché ci sei affezionato, un po' perché tanto non hai un cavolo da mettere che soddisfi tutti i requisiti necessari per passare una giornata in comodità sembrando un gran figo. Scendi in strada che c'è una pioggerellina leggera e ti fermi. Si, ti fermi perché hai dimenticato l'ombrello a casa, e non sai se sia il caso di perdere quei dieci minuti che ti servono per richiamare l'ascensore, risalire, quattro mandate sopra e quattro mandate sotto riaprire la porta, cercare l'ombrello più vicino che sia "sano" perché il più delle volte o sono mezzi rotti o sono troppo ingombranti o sono piccoli e portatili, la versione pocket insomma, ma poi con un soffio di vento sono meno utili di una stufa nel deserto alle quattro del pomeriggio. Ritorni in strada, ha smesso di piovere, ti incammini verso la fermata dell'autobus, aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. Non so nelle vostre città, ma nella mia gli autobus sono rari come un onesto in parlamento. Arriva l'autobus, sali e comincia a piovigginare. Che culo, pensi. In realtà l'intensità della pioggia è inversamente proporzionale alla distanza dalla tua meta: cioè più ti avvicini più Dio la manda. Arrivi infine alla tua fermata e ovviamente l'autobus si ferma davanti ad una pozzanghera ed è matematicamente provato che le possibilità che hai di mettere il piede nel punto più profondo della pozzanghera, scendendo dall'autobus, sono pari alle probabilità di non incontrare Malgioglio ad una manifestazione di gay pride. Per cui ti metti il cuore in pace, ti bagni i piedi e ti avvii alla meta. Entri in ufficio e smette di piovere. Prendi il numeretto per fare la fila: 55. Servono il: 18. O_O Aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. Si, perché, non so da voi, ma nella mia città i funzionari pubblici sono lentissimi. Ti rassegni anche all'idea di aspettare circa due ore per avere un pezzo di carta che, giuri, se avessi avuto il permesso, avresti preso un computer e te lo saresti fatto da solo! Aspetti e finalmente arriva il tuo turno, dopo un'ora e quarantacinque minuti primi, ti stampano il documento in venticinque secondi cronometrati, mettono un bollo e una sigla illeggibile e ti augurano "buon giorno e arrivederci". Mavaff*. Ti avvii all'uscita e, toh!, piove! Rifai il tragitto al contrario (al contrario solo per lo spazio percorso, ma la sfiga, l'attesa e la pioggia sono le stesse). Mentre stai tornando ti telefona tua madre/moglie/compagna/fidanzata chiedendoti di comprarlo tu il pane. Panificio, pane, costo: un euro. Non hai un euro a monete, per cui allunghi un biglietto da venti e la commessa ti da il resto (ovvero 19 euro) tutto a pezzi da 50 centesimi. Con la tasca gonfia come se avessi avuto un ascesso sul sedere torni a casa. Portone, ascensore, quattro mandate sopra e due mandate sotto, entri e ti avvii in cucina. Posi il pane e con un raptus di follia cominci a spogliarti, tiri le scarpe per aria, via i calzoni, via la maglietta, ti infili un pigiamone comodo comodo e ti rimetti a letto.
E pensi: avrei dovuto farlo alla prima sveglia. Echeccazzo!